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3 dicembre 2008

Ultras e stato di polizia.

In Italia certe parole diventano puntualmente il simbolo paradigmatico di interi fenomeni. Si dice “il movimento” e si pensa subito agli studenti in lotta. Si usa l’aggettivo “estrema” vicino alla parola sinistra o destra, e il pensiero va subito a fazioni border-line che si muovono a metà strada fra il sistema democratico e l’eversione. Si parla del terrorismo internazionale e, in linea con l’equazione tanto cara a George W. Bush, se ne fa un tutt’uno con la religione islamica come se tutti i seguaci di Maometto fossero aspiranti uomini bomba. E poi, nel Belpaese angosciato dalla poca sicurezza e dalle mille emergenze quotidiane raccontate dai media, c’è una parola che adombra un pericolo costante: ultrà o ultras e subito la mente viene portata a teppismo, furti, devastazioni, guerriglia urbana. È proprio da qui, dall’accezione della parola “tifoso” in Italia, che bisogna partire per capire il motivo dell’interesse per il mondo delle curve.
Sgombriamo subito il campo da un equivoco: gli ultras non sono una categoria, e ultras non è un’etichetta che si può affibbiare tout court a chiunque entri dentro un impianto sportivo per sostenere la propria squadra. Gli ultras non sono assimilabili a categorie sociali come quelle degli operai, degli studenti, degli ingegneri o chissà cos’altro. Il tifoso, l’ultras, l’ultrà è solo uno qualsiasi di noi che mostra un attaccamento estremo, radicale alla propria squadra, alla propria città, ai proprio colori. E ovviamente tutto questo non significa che si tratti di una persona necessariamente violenta e pericolosa. L’ultras è il nostro vicino di casa, è l’operaio, l’avvocato, il giornalista, lo studente, il disoccupato, il papà, l’autista. Per dirla con un luogo comune, è l’uomo della porta accanto.
Allora, evidentemente, c’è qualcosa che non va. Se ultras lo può essere anche un libero professionista, l’accezione corrente è sbagliata. Forse, o probabilmente, è sbagliata in mala fede. E più avanti ne scopriremo anche il motivo. Di fatto, però, agli occhi della classica casalinga di Voghera avere una passione per la propria squadra appare un demerito. E quando magari scopre che il “bravo ragazzo” che conosce da anni è un tifoso radicale, cambi immediatamente la sua valutazione. Non è più così “bravo”. È una specie di delinquente a piede libero, che chissà cosa combina o cosa potrebbe combinare. Non lo ripete, sempre, anche la televisione?
Ecco fatto: il tam tam mediatico ha funzionato, il lavaggio del cervello è andato a segno. Proprio perché il mondo delle curve è stato dipinto come un luogo infernale popolato da reietti della società, l’ultras si ritrova a calamitare su di sé tutto il peggio, prestandosi inconsapevolmente a una strumentalizzazione continua. Che, come vedremo meglio più avanti, ha diverse manifestazioni e differenti scopi, di maggiore o minore portata, a breve o a lungo termine.

All’inizio della scala c’è la manipolazione spicciola, quella che è stata ben definita, anche in altri ambiti, “arma di distrazione di massa”. Per esempio: l’uso del tifo organizzato per non soffermarsi su altro, come nel caso della farsa mediatica dei tifosi napoletani in trasferta a Roma per la prima giornata di campionato, coi disordini gonfiati ad arte per monopolizzare l’attenzione e mettere in ombra l’avvio (si fa per dire, visto l’immediato rinvio per irregolarità procedurali) del processo per l’omicidio di Gabriele Sandri da parte dell’agente di polizia Luigi Spaccarotella.
A un livello ben più alto c’è invece l’utilizzo degli ultras come pretesto per assumer provvedimenti di carattere generale, che investono o si preparano a investire l’intera società. Il processo mediatico e la condanna morale degli ultras che divengono, per dirla in termini giuridici, il “precedente” su cui basare leggi liberticide, anti-costituzionali e, addirittura, contro il senso comune. Una sorta di laboratorio in cui si cominciano a sperimentare le dinamiche autoritarie del Grande Fratello, giustificando in nome dell’ordine pubblico lo Stato di polizia e il controllo su tutto e tutti. Un esperimento che, essendo fatto innanzitutto sulla pelle della “peggio gioventù”, non alza polveroni e lascia mano libera, permettendo operazioni sotterranee che in seguito, però, potranno andare a colpire qualunque altro segmento della società.

Le leggi speciali che diventano la normalità

Ogni volta che si sente parlare di “leggi speciali”, soprattutto qui in Italia, bisognerebbe subito diffidare. Un provvedimento speciale, infatti, dovrebbe non solo essere legato a eventi particolari e di estrema gravità, ma restare comunque una misura eccezionale e temporanea, che viene abrogata non appena si è usciti dalla fase di massimo pericolo. Ma non è così. Un
esempio su tutti? Le leggi speciali approvate durante gli anni di piombo. Trenta anni dopo sono ancora vive e vegete. E soprattutto attivissime. Eppure, fortunatamente, per le strade della nostra nazione non ci si spara più per ragioni politiche. Non ci sono più attentati e agguati reciproci.
Ancora oggi, però, esistono divisioni della polizia politica che hanno sostanzialmente mano libera nel colpire chiunque non abbia posizioni moderate. Ci sono leggi che colpiscono esclusivamente le idee o i simboli. Ci sono, ancora, normative che danno carta bianca allo Stato nel controllare il cittadino.

La grande leva della paura

Entrati nel Terzo Millennio, per giustificare il controllo globale ci siamo trovati davanti a una vera e propria campagna mediatica mirata a instillare nei cittadini la paura, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Paura del terrorismo. Paura delle epidemie e delle nuove malattie. Paura del vicino di casa. Paura di camminare per la strada. Come è stato possibile tutto ciò? Semplice: continui richiami in televisione ad assassinii, a morti improvvise, a stupri, a rapine. Tutti modi per inculcare nella testa di ogni bravo cittadino l’idea, e il bisogno, di maggiore sicurezza, da ottenere a qualsiasi costo. Più controllo, più ordine. Nelle nostre strade, oggi, vediamo le mimetiche verdi dell’esercito. Ma forse è quello che non vediamo, la parte più preoccupante. E qui si torna ai famigerati ultras.
Come abbiamo già detto, i provvedimenti speciali hanno come incubatore preferito il mondo delle curve, quel mondo che difficilmente qualche politico o qualche istituzione pubblica difenderà mai. Ogni governo che è rimasto per più di qualche mese a Palazzo Chigi ha colpito il mondo del tifo. La prima operazione è stata la destrutturazione: colpire il tifo organizzato, gli esponenti dei gruppi, quelli che ogni settimana mettevano in piedi una macchina organizzativa fatta di riunioni, appuntamenti, coreografie, stadio. In pratica, si è incominciato a criminalizzare quelli che stavano dietro uno striscione specifico, che si prestava alla strumentalizzazione. Ecco le diffide, ecco le perquisizioni preventive. Siccome domani tu potresti fare chissà che cosa, io intanto stanotte vengo a casa tua, ti metto a soqquadro l’abitazione e ti faccio capire che è meglio stare attento. Oppure, io polizia ho una lista di nomi di persone che sono andate in trasferta in un certo posto, qualcuno ha creato problemi, e allora cosa faccio? Io Stato “diffido” tutti. La diffida, ovvero il Daspo, acronimo di “divieto di accedere a manifestazioni sportive”, esiste dal 1989.
Di cosa sia, di come venga usato, e del suo stesso fondato sospetto di incostituzionalità, parliamo diffusamente nell’intervista che segue, con l’avvocato Lorenzo Contucci. Basti dire, qui, che la diffida è un’arma con cui è stato colpito senza remore o distinzioni il mondo degli stadi. Uno strumento messo in mano alle questure e lasciato al loro libero arbitrio.
Le questure hanno carta bianca nel colpire chiunque. E se domani lo stesso provvedimento, la stessa logica fosse spostata nel campo delle manifestazioni politiche o sindacali?
Per non parlare poi dell’introduzione del famigerato “arresto in flagranza differita”: un controsenso in termini, visto che già la parola stessa di flagranza significa che qualcuno è stato colto con le mani nel sacco. L’aggiunta della “differita” è solo un modo, molto contestato dagli stessi giuristi, per colpire gli stadi, con la traduzione immediata in carcere, e chissà domani chi altro.
Ma non è finita qui. Dopo la morte dell’ispettore di polizia Filippo Raciti, sull’onda mediatica dello sdegno costruito a tavolino per gli scontri tra catanesi e palermitani, abbiamo assistito a un inasprimento delle misure contro gli ultras. Vietate la maggior parte delle trasferte.
Vietati gli striscioni non ignifughi (!?). Vietata la vendita dei biglietti se non dietro presentazione di un documento. Chiusura dei settori ospiti (creando una pericolosa vicinanza nei settori “normali” tra tifosi di fede opposta).

“Si comincia a stabilire chi può entrare negli stadi. Domani lo si potrà fare coi concerti. E poi coi raduni di ogni altro tipo”

Praticamente si è sancito il principio che una minoranza di facinorosi può decidere per tutta l’Italia e che, forse, conviene avere un po’ di violenza da mettere in prima pagina per tenere buoni gli italiani e indurli a sollecitare maggiore sicurezza. Ci sarebbe da chiedersi se tutto questo ragionamento possa essere applicato all’esterno. L’equazione sarebbe semplice. Visto che davanti alle discoteche ci sono le risse o in autostrada ci sono gli ubriachi che fanno gli incidenti, perché non introdurre le autostrade e le discoteche “a porte chiuse”? Oggi, in ogni
stadio italiano, per esporre uno striscione c’è bisogno del via libera della procura tramite un fax mandato almeno due giorni prima della partita.
Oggi, non possono più entrare i materiali preparati per le coreografie. Oggi, gli stadi italiani stanno diventando sempre più grigi e silenziosi. Il controllo e la repressione senza distinzioni stanno distruggendo dalle fondamenta il tifo organizzato, con due gravi conseguenze: la scomparsa dei gruppi strutturati, favorendo così gruppetti di cani sciolti incontrollabili, e l’allontanamento dagli stadi di famiglie e bambini. Se per andare allo stadio con mio figlio devo subire una trafila da controlli anti-terrorismo, finisce che lascio perdere.
E anche le ultime notizie che ci arrivano sono tutt’altro che confortanti. Dopo i fatti di Bulgaria-Italia (e ci sarebbe da chiedersi quali “fatti”, visto che la maggior parte delle foto che sono arrivate da noi erano di tifosi bulgari e non di italiani, come detto dai media e dagli
imbarazzatissimi politici), il presidente della Figc Giancarlo Abete ha fatto sapere che non ci sarebbero più stati biglietti per le partite dell’Italia all’estero. Ma come? Se pure fosse confermata la versione ufficiale, bastano 144 (il numero dei biglietti venduti a Sofia) facinorosi per togliere a tutta l’Italia la possibilità di seguire i nostri azzurri?
Poi, la perla finale che avevamo anticipato sul numero scorso: la carta del tifoso. A cosa serve? È un sistema, spiegano dal Viminale, per “fidelizzare sempre più i tifosi ai loro club e, nello stesso tempo, per emarginare le frange più violente del tifo. Una specie di telepass che consente
l’ingresso agevolato negli stadi
”. Peccato che non dicano a chiare lettere cosa si nasconde dietro a tutto questo. Per avere la “tessera” io normale cittadino devo fare richiesta alla società che, però, deve chiedere il permesso alla questura del luogo. A decidere chi sono i buoni e chi sono i
cattivi, dunque, non sono le società sportive. È la polizia
. E se io sono già nella sua lista nera del Viminale, come faccio a uscirne?
Si comincia così. Si comincia a stabilire chi può entrare e chi non può entrare negli stadi. Domani lo si potrà fare coi concerti. E poi coi raduni di ogni altro tipo. E poi con gli spostamenti individuali. Vuoi andare da qualche parte? Chiedilo alla questura. Senti, preventivamente, se è d’accordo oppure no. O se è meglio che tu te ne resti a casa, in nome dei supremi interessi dell’ordine pubblico.

Quando l’aggregazione giovanile fa paura

I giovani, si sa, fanno sempre paura a ogni sistema di potere. Ragazzi erano quelli di Budapest che nel ’56 hanno sfidato l’Urss, come studenti erano quelli che nel ’68 hanno combattuto per la libertà di Praga. Il movimento del ’68, le lotte del ’77, gli universitari degli ’80, i figli del riflusso e poi successivamente della caduta del Muro di Berlino del 1989. Per non parlare poi delle avanguardie culturali e di pensiero, come nel lampante caso del Futurismo e dell’impresa di Fiume o in quello della rivoluzione cubana capeggiata da Fidel Castro e Ernesto “Che” Guevara. Anche oggi dai giovani (molte volte anche ultras) partono le rivolte: a Budapest contro il premier liberal-liberista Ferenc Gyurcsány, a Belfast contro l’occupante britannico, a Parigi nelle banlieue, a Gaza contro i carri armati israeliani. Il minimo comun denominatore di tutti questi avvenimenti è la gioventù dei partecipanti alla rivolta, alla lotta, alla guerra, alla guerriglia, alla rivoluzione.
Ci sono state alcune generazioni che hanno combattuto per qualcosa in cui credevano. Generazioni che sono cresciute forti, sane e mentalmente libere. Comunque sia, con lo sguardo rivolto al futuro, con la faccia rivolta all’insù. Storicamente, invece, le generazioni di mezzo sono sempre state quelle frustrate, che non avevano nulla per cui lottare. Magari cresciute
nella pace e nella prosperità, ma di contro vissute nella luce, indiretta, dei racconti dei fratelli maggiori. Generazioni senza un punto cardine su cui costruire la propria vita. Basti pensare ai tanti dopoguerra, ai post-rivoluzionari, a quelli che sono nati in una situazione totalmente
“normalizzata”. Rabbia, frustrazione e soprattutto poca consapevolezza del futuro, con la scomparsa di una visione libera e d’insieme.

“Lo Stato reprime, comprime le spinte giovanili, pretende di normalizzare tutte le situazioni anomale.”

Dalla fine degli anni ’50 (e forse anche da prima) ai giorni nostri, esiste un solo movimento di aggregazione giovanile che ha continuato a vivere, a passarsi il testimone, ad avere nuovi capi e a poter contare su migliaia di presenze. Il mondo ultras. Ogni domenica, dal calcio all’hockey su
ghiaccio, le gradinate di stadi e palazzetti dello sport vengono riempite da giovani. Ragazzi con i propri eccessi, ma fedeli alla propria tribù. Con i propri riti, le proprie battaglie, fatte di feriti e prigionieri, il proprio codice d’onore, fatto di regole non scritte. Certo, sono tribù che si affrontano a viso aperto e senza troppi problemi. Gruppi che canalizzano la propria rabbia, simulando una guerra che non c’è più, una rivoluzione ormai tramontata da decenni. Ma quello che più importa è che sono ragazzi che vivono di passione, attaccamento alla bandiera, amicizia, fedeltà. Giornate passate a pensare slogan e produrre coreografie (quando si potevano fare). Piani per colorare la propria seconda casa, la curva. Serate passate a ridere e scherzare con tanto di “reduci” che raccontano le battaglie del passato, del presente e del futuro. Certo, qualcuno inorridirà davanti ad affermazioni di questo tipo, ma soprattutto oggi, nella società basata sul consumismo e la lobotomizzazione televisiva dei cervelli, chi ha il germe della ribellione sta dalla parte giusta. Il problema, semmai, sarebbe incanalare sulla strada corretta e con qualche eccesso in meno forze così importanti.
Lo Stato non può che aver paura di tutto questo. E allora – invece di infondere nei più giovani la fiducia nelle Istituzioni, invece di mostrare loro la buona amministrazione della res publica, invece di far capire che alla fine le forze di polizia possono essere veramente amiche del cittadino – lo Stato reprime, comprime le spinte giovanili, pretende di normalizzare tutte le situazioni anomale. Quando non fa di peggio, ovviamente: come cercare di insabbiare l’uccisione senza motivo di un ragazzo che viaggia dentro una macchina in autostrada, omettendo di punire per direttissima il colpevole solo perché porta la divisa. Come si può chiedere a un ragazzo di avere fiducia nel sistema?


L’impressione è che, anche nel caso del popolo delle curve, si tenti solamente di destrutturare da cima a fondo l’aggregazione giovanile che potrebbe portare più consapevolezza e, quindi, più problemi. Meglio generazioni di ragazzi che si istupidiscono davanti a chat, social network,
spot televisivi, magari accompagnando il tutto con un po’ di droga. Saranno sicuramente più innocui, più facili da manipolare, da neutralizzare, da asservire alla logica di chi detiene il potere. Saranno i cittadini ideali di questo Stato per niente ideale





(Tommaso Della Longa, articolo tratto da ilribelle.com)

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